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"Il piacere di far bene il proprio lavoro" |
Sono tempi duri, per tutti. Per chi sta dentro un' organizzazione e per chi svolge la libera professione.
Alcune leve motivazionali, così importanti e stabili fino a qualche anno fa (ruolo, retribuzione, pensione, crescita) vacillano sempre di più sotto i colpi delle riorganizzazioni continue, della crescente competitività del mercato e della crisi economica.
Molti lavoratori, professionisti e manager, riescono a mantenere il proprio lavoro grazie ai patti di solidarietà e/o alla riduzione dell'orario, al dimezzamento dell'onorario e ad un attenta e perfino ossessiva attenzione ai costi. Gli obiettivi di business, in funzione della competitività, vengono ridefiniti continuamente e continuamente rimessi in discussione.
In questa cornice socioeconomica il senso del proprio lavoro, del valore di quello che si fa e si sa fare dipende sempre meno da riconoscimenti esterni (promozioni, integrazioni retributive, benefits, etc,) e sempre di più da quanto siamo capaci di provare piacere per quello che facciamo e per come lo sappiamo fare.
Tutti noi abbiamo bisogno del riconoscimento sociale come fonte di rinforzo, ma quando il riconoscimento esterno viene a mancare, allora bisogna imparare ad alimentare l'auto-riconoscimento.
L'auto-riconoscimento passa attraverso la consapevolezza che abbiamo limiti ma anche risorse, il credere e avere fiducia in noi stessi. Passa attraverso il nutrire il proprio senso di autostima in mancanza di riconoscimenti e stimoli esterni. Perché è il valore che noi attribuiamo a noi stessi che getta luce o ombra sulle cose che facciamo, che ci consente di riconoscerci in ciò che facciamo.
Come avviene al bambino intorno ai due anni che per la prima volta riconosce se stesso di fronte ad uno specchio: ciò a significare che il bambino raggiunge una consapevolezza di sé tale da permettergli il riconoscimento di se stesso.
Stiamo parlando, quindi, non del piacere o la felicità che ci deriva dal fare le cose che ci piacciono, ma dal piacere che ricaviamo dal fare le cose bene, dal farle, anche se non ci piacciono, come dovrebbero essere fatte, perché ciò si traduce in un valore aggiunto per se stessi, per il gruppo di appartenenza, per i collaboratori e i clienti.
Quando si lavora in azienda, o per un cliente, fare bene le cose è, oggi più che mai, un imperativo al quale non ci si può sottrarre, perché incide sulla sopravvivenza stessa dell'azienda in cui si lavora.
Sembrerebbe quindi che siamo tenuti a fare bene le cose a prescindere dal fatto che traiamo piacere o meno, se non fosse che, per il modo in cui funzioniamo noi umani (e non solo), la dimensione del piacere è una fonte importante di auto-motivazione.
David Linden, neurofisiologo statunitense, docente alla John Hopkins University di Baltimora e autore del saggio "The compass of pleasure" (La bussola del piacere, - Codice Edizioni) afferma che "Il piacere ha radici evoluzionistiche molto profonde. Non lo provano solo gli esseri umani o i primati: è molto più antico di noi. Esistono circuiti del piacere nei serpenti, nelle lucertole, e addirittura in animali privi di cervello, come i piccoli vermi che vivono nella terra. Quando questi animali mangiano un certo tipo di batteri, si attivano i meccanismi di rilascio della dopamina: è un tipo molto rudimentale di piacere. Lo stimolo del piacere esiste per incentivarci a mangiare, a bere e ad accoppiarci, cioè in sostanza a sopravvivere".
"La cosa interessante è che, con l'evoluzione, abbiamo inventato meccanismi artificiali per innescare il piacere; con l'evoluzione, il nostro cervello si è ingrandito progressivamente, in particolare nella parte frontale, responsabile del ragionamento e dei processi cognitivi e sociali. Si sono formate sempre più connessioni tra questa regione e il Mfbc ( Medial Forebrain Pleasure Circuit ). Ciò implica che riusciamo a provare piacere anche da comportamenti e situazioni che non hanno alcun valore evoluzionistico. A differenza di un topo, che ricerca il piacere solo nel cibo e nell'accoppiamento, solo un essere umano può essere gratificato dal digiuno o dalla castità, se le sue convinzioni culturali o religiose glielo suggeriscono. È per questo che le culture umane sono così ricche e variate".
Fare bene le cose diventa di per sé una fonte di piacere perché ciò che abbiamo prodotto corrisponde a ciò che è la nostra idea di come quella cosa deve essere fatta per funzionare, per creare valore aggiunto, perché se è ben fatta la prima grande soddisfazione è di chi l'ha prodotta, traducendosi in un rinnovato piacere nel continuare a mettersi alla prova.
Quante volte abbiamo pensato di non essere all'altezza di un obiettivo, di una aspettativa e poi "mettendoci le mani" abbiamo non solo scoperto che potevamo imparare facendo, ma anche di avere a disposizione competenze che non pensavamo di avere?
Quante volte abbiamo scoperto che, al di la del piacere provato o meno nell'impegnarci, il fatto di aver prodotto un risultato per noi importante e ben fatto ha comportato come conseguenza inaspettata anche un riconoscimento da parte degli altri? Il fare bene le cose implica un approccio culturale che deve corrispondere a delle regole e assiomi precisi, accettando il rischio che, pur essendoci impegnati, il risultato possa essere insoddisfacente, e utilizzare ciò come opportunità per migliorare.
di Maria Cecilia Santarsiero - HR OnLine n. 17 anno 2013 |
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